Vanin (“Vanìni”)

vaninOriginari da Santa Cristina di Quinto, i “Vanìni” giunsero a Paese (Trevisio-Italia) nei primi decenni dell’Ottocento con Giulio Francesco (1809), probabilmente quando si sposò con Catarina De Rossi, il 17 Febbraio 1831. Contemporaneo di Giulio Francesco era Giuseppe Giusti (1809-1850), il poeta e letterato più amato dai contemporanei che dalla critica postuma. Attirava la simpatia del pubblico per la sua vena satirica e popolaresca, ma senza ispirare grandi ideali. Primo anello della catena dei Vanin era Pietro (1750 ca.), che generò Antonio e chissà quanti altri consanguinei. Di certo si sa che era una famiglia a conduzione patriarcale insediata lungo le rive del Sile. Antonio era il padre di Giulio Francesco, colui che per primo mise piede su una terra dalle caratteristiche ben diverse da quella che aveva lasciato. Era il periodo in cui Jean Jacques Rousseau, con “Pensées de la nature”, accennava all'alienazione prodotta dalla nostra civiltà… Nel 1750, quando vedeva la luce il capostipite dei Vanin, la terra contava poco meno di 700 milioni di abitanti, circa 17 milioni in Italia. Nasceva il catasto teresiano voluto da Maria Teresa d’Austria per far pagare le tasse ai possessori d’immobili, in altre parole ai ricchi. Da Giulio Vanin e Catarina, nel 1832 nacque Francesco, che si sposò con Luigia Tosatto; furono questi i progenitori di Domenico (1863), che si unì con Luigia Visentin (1866); di Liberale, che convolò a nozze con Maria Vendramin; e di Eugenio che si accasò con Elena Luigia Sponchiado. Abitavano tutti nella stessa casa colonica, denominata la “colombèra” perché ospitava tanti “cói”, in altre parole nuclei familiari riuniti insieme, soprattutto tanti bambini. Un tempo l’antica dimora era probabilmente un edificio importante, forse un convento. Ipotesi supportata dal fatto che nel granaio c’erano delle decorazioni a fresco in tema religioso. Fatto è che in quest’antico caseggiato di tre piani, sovrastato un tempo da una torre con fori ogivali perimetrali, coabitavano quattro famiglie con due cucine separate, in tutto una quarantina di persone. Da Domenico e Luigia nacque Francesco Luigi (1888-1950), detto “Jijo cèo”, che si sposò con Maria Renosto (1890-1953) da San Giuseppe di Treviso. Questi andarono ad abitare in una nuova casa di proprietà di Don Domenico De Lazzari (“Matonèl”), lavorando da fittavoli sei campi di terra. Altri appezzamenti erano in carico ai consanguinei della cosiddetta “colombèra” che nel frattempo divisero la casa per assumere ognuno la propria autonomia. Francesco Vanin e Maria Renosto furono sposi a S. Giuseppe nel 1912. Dal loro connubio nacquero nove figli. Primogenita era Luigia (1913-87), che si coniugò con Emilio Vanin, residente nella “colombèra”. Secondogenito era Albino (1915-89) che si unì a Bianca Berti (1914). C’era poi Antonia (1918-69), moglie del panettiere Antonio-Gino Nasato, chiamato “Gino Morettón” (cfr. vol. I) ed ancora Antonio (1920-89), marito di Amabile Favero; quindi Giovanni (1921-66), coniugato con Bruna Venturin (1926-2002) da Padernello. Venne poi al mondo Domenico (1923-95), che prese in moglie Santina Furlan. Seguì l’anno dopo Regina (1924-2002), che si fece religiosa salesiana. Penultima è Emma (1927), coniugata con Pietro Callegari (“Vetorèl”). Ultimogenita di Francesco e Maria Renosto era Carina (1927), moglie di Bruno Favotto (“Smaniotèi”) da Porcellengo, che prima di morire ha ripercorso queste memorie. Luigia ed Emilio Vanin emigrarono in Canada nel 1949, ma l’uomo aveva preceduto la moglie di quasi vent’anni; lavorava nelle miniere auree nel Brithis Columbia. Nel Nuovo Mondo i due coniugi ebbero dei figli. Pure Albino e Bianca Berti partirono per Toronto nel 1949. Albino era muratore capomastro. Prima di emigrare era stato nella fanteria. L’armistizio dell’Otto Settembre 1943 lo colse ad Atene; fatto prigioniero dai tedeschi fu internato in Germania nei pressi di Berlino. Di quel periodo infausto conservava il ricordo di un suo compagno assassinato per aver rubato una patata. Egli stesso aveva patito gli spasmi della fame, tanto che aveva ceduto l’orologio regalatogli dalla fidanzata in cambio di una pagnotta. Un anno dopo il suo internamento, in casa Vanin era giunta la notizia della sua morte: ucciso dai nazisti per aver asportato un telo per coprirsi, si diceva. La famiglia l’aveva pianto a lungo, ma si trattava di un equivoco. Il defunto non era lui, ma il compaesano Zago (“Comarìn”), combattente sul fronte russo. Albino ritornò, inatteso, il 14 settembre 1945, di sera tardi. Quando si presentò all’uscio di casa i suoi erano già a dormire, tuttavia la lieta sorpresa del suo arrivo li buttò letteralmente giù dal letto e si fece baldoria fino all’alba con tutto il vicinato. I suoi familiari gli prepararono subito dell’acqua calda per lavarsi dai pidocchi e, a questo proposito, raccontò di essere salito in treno che stentava a reggersi in piedi dalla debolezza, ma non trovando posto a sedere finse di grattarsi e subito ottenne ciò che sperava. Pochi anni più tardi Albino espatriò con la sua sposa in Nordamerica dove ebbe due figli…

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