Bertelli ("Bertèi")

Bertelli Mosè wNel 1954, Mosè Bertelli, classe 1904, lavorava nella fabbrica di ordigni Marnati & Larizza di Castagnole (Treviso-Italy), quando un improvviso malore gli strappò la vita a soli cinquant’anni, lasciando la moglie Annunziata e i due figli, Carlina e Candido. I “Bertèi” originariamente abitavano in quel borgo di Castagnole noto come Falzadel (luogo dello sfalcio). Vicini di casa erano i Santolin detti Aureli, con i quali c’era un rapporto privilegiato tra i Bertéi e gli Aureli da quando una bimba di questi, emulando le donne che lavavano la biancheria sul lampór su un ramo del canale Bretella, era caduta in acqua e sarebbe sicuramente annegata se una dei Bertelli, non l’avesse strappata alla corrente.
Ad Annunziata, da tutti conosciuta come Emma, quel giorno infausto del 1954 aveva cambiato la vita. Con il marito era mancata l’unica entrata, nonostante che i figli fossero ormai nella maggiore età, ma i tempi erano quelli dell’immediato dopoguerra, della ricostruzione. Quelli che seguirono furono per lei veramente anni difficili, in parte alleviati dalla benevolenza di tanta buona gente, parroco in testa. Emma (1903), quando fu scritto questo testo, era l’unica vivente dei dodici figli di Domenico Marchetto, detto “Meno Marchetìn” e di Carolina Stolfo, da Ponzano Veneto. Una famiglia che lavorava da fittavola i quattordici campi di terra della signora Clemetina Sartor.
[...] In famiglia ognuno aveva il proprio impegno, anche la giovinetta Emma che raccattava tronchi per i fossi con il “cariòl” (carrioletta), legna per il “larìn” (focolare in pietra e mattoni). Ma per scaldarsi non si usavano solo ceppi o tronchi, andavano bene anche i rovi e gli “scataróni” (monconi di piante di granoturco). Era compito di papà Meno preparare la polenta di sera, mentre la moglie raccoglieva una gran terrina di radicchi di campo, che condiva con un po’ di lardo. Era questa la cena quotidiana, con due fichi secchi che erano masticati lentamente per farli durare a lungo. A mezzogiorno invece c’era il solito riso: un chilogrammo per quindici persone, perché vivevano nella stessa casa altri fratelli di Meno. Dopo cena i più piccoli si sedevano su una panchetta davanti al focolare. Meno insegnava loro le orazioni prima di mandarli a letto. Nei mesi invernali, si andava a filò nella stalla; vi venivano anche altre persone del vicinato, era qui che il capofamiglia, da buon credente, inginocchiato sul pavimento intonava la recita del Rosario. Non tutti avevano la corona, nemmeno Domenico che contava le dieci avemarie sulle dita, dando un colpo sullo schienale della sedia con la scatoletta di tabacco per segnalare che si cambiava: “Gloria Patris...”, ma se perdeva il conto ci pensavano le ragazze a battere con gli zoccoli le gambe della seggiola.

Sono le memorie lasciate da Emma Marchetto-Bertelli, riesumate alla bell’età d’anni cento. Ricordava ancora tutto dell’infanzia e della sua famiglia di origine. E si ricordava la “Poesia del contadino” imparata a scuola, che diceva più o meno così: “Un contadino si presentò davanti a un signore / e gli dava la mano, / ma il signore la rifiutò / dicendo al contadino: / non ti do la mano / perché l’hai sporca e callosa. / Vergognatevi voi, rispose il contadino / che non le avete sporche. / S’io vi abbondo del pane e del vino / queste mie mani ringraziar dovete / son cotte dal sole, nere e callose / ma son mani laboriose / lavorano sempre e mai son stanche / valgon più di dieci mani bianche”.

Il fratello Antonio, a vent’anni era partito militare nel 55° Reggimento Fanteria ed inviato a combattere in Albania. L’8 Giugno 1916, mentre stava tornando, la fregata a vela “Principe Umberto” su cui era imbarcato fu silurata. [...] Intanto Emma, prima d’accasarsi in Bertelli, aveva trovato occupazione a Sant’Antonino, dall’ortolano Vittorio Bortolanza. Un lavoro duro, d’estate sotto il sole cocente, d’inverno con temperature rigide a estirpare radicchi nei campi con il badile e poco vestiario addosso. Rimase due anni in cambio di vitto e alloggio, alla fine fu liquidata con un sacco di granoturco e un vestito nuovo, che era già di per sé una ricchezza se si considera che non ci si poteva permettere più di un paio di calze nell’intera stagione invernale. [...] Dopo sette anni di fidanzamento, finalmente Annunziata sposò Mosè Bertelli, accadde sabato 30 aprile 1927, andando così ad accasarsi in Falzadèl. Fu quella la prima volta che poté baciare il suo amato perché vigeva un’educazione pudica e bacchettona. Era andata all’altare con in mano un mazzetto di freschi giacinti, colti nel giardino. Il pranzo di nozze fu consumato con una schiera di parenti e amici alla vicina trattoria “Santi Angeli” di Giovanni Bortolin. Il giorno dopo si replicò in casa con pochi parenti rimasti, ma il mattino di lunedì la festa era già alle spalle e la solita vita di sacrificio tutta davanti.

(La storia completa di questa famiglia si trova nel 1° volume Famiglie d’altri tempi, reperibile on-line su www.macrolibrarsi.it)

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