Favotto (“Smaniòti”)

favottoTempi duri per i vecchi mulini. Passata la lunga stagione in cui la popolazione era quasi tutta dedita all'agricoltura, uno dopo l'altro hanno chiuso i battenti. I pochissimi ancora funzionanti agonizzano nella campagna trevigiana con strutture obsolete, qualcuno tenuto come testimone di un’epoca lontana, mentre gli imprenditori agricoli si sono attrezzati in proprio. Da poco è stato dismesso, per mancanza di successori, anche quello di Castagnole, frazione di Paese (Treviso), condotto dai fratelli Favotto: Carlo (1928), Marcello (1932) e Lucio (1934). Il primo mulino era sorto in piazza a Porcellengo intorno al 1923 per volontà del nonno Valentino Giovanni "Smaniòto" (1880-1964), che volle dare un'alternativa al figlio Fiorino (1902), il quale voleva emigrare in Sudamerica. Questi era uno dei suoi otto figli (sette maschi e una femmina). “Smaniòti” è ancora questo il blasone che accompagna i Favotto, una famiglia che fino al 1950 lavorava in proprio ben 38 campi di terra. Ma Porcellengo era un paese troppo piccolo per l’espansione dell'attività, anche se gli "Smanioti" avevano come clienti grandi famiglie patriarcali di Paese, come i "Brigata" (Zanoni) e i “Moreti” (Nasato). Così, acquistati nel 1946 a Castagnole cinque campi del "brolo" degli "Aureli", l'attività riprese con rinnovato impulso nel luglio dell'anno seguente. Giovanni Favotto, il capostipite dell’attuale discendenza, non era solo il padre-padrone, ma un naturale condottiero; già la sua presenza, soprattutto il portamento incuteva autorevolezza e rispetto. Era stato combattente e prigioniero dei francesi a Lione nel 1917, dove aveva imparato a resistere, acquisendo una temperie che lo accompagnerà per sempre. Durante questa permanenza, periodicamente riceveva dei pacchi di viveri dalla sua famiglia con la mediazione della Croce Rossa. Giovanni era nato il 13 febbraio 1880; aveva un fratello di nome Angelo (1882). Erano questi i figli di Sante di Fiorino e di Angela Moro di Gioele. Giovanni era marito di Candida Paccagnan (1880-1963) da Postioma, chiamata Maria. Dal loro matrimonio, oltre al primogenito Fiorino, vennero al mondo otto discendenti. Papà Giovanni ad ognuno dei suoi figli aveva affidato delle mansioni da svolgere, ma l’attività familiare era in continua evoluzione perché possedeva il pallino per gli affari. La casa con i diciannove ettari di terra era di sua proprietà, cosa assai rara per quei tempi, e la stalla era fornitissima di bestiame da latte e da tiro, ma anche da macello, oltre una quarantina di quadrupedi. Una condizione da benestanti nonostante che il nucleo al completo contasse oltre una trentina di persone. In fatto di temperamento non era da meno la moglie Candida-Maria, una donna ferrea e determinata. Lo aveva dimostrato durante l’assenza del marito, fatto prigioniero durante la Prima Guerra Mondiale, quando con i figli appena adolescenti si era trovata a condurre la considerevole proprietà. Saputo che il marito era prigioniero, Candida non si era persa d’animo e, attaccato prontamente il cavallo al calesse, lo spronò senza tregua per la strada polverosa che la condusse al Montello, dove grazie alla straordinaria risolutezza riuscì ad incontrare il suo Giovanni e a trascorrere insieme la notte prima che fosse deportato in Francia. Durante la Grande Guerra nella gran casa colonica a quattro arcate, ancora visibile in tutta la sua maestosità, erano insediate truppe scozzesi, inglesi e americane che ai bambini distribuivano tavolette di cioccolato. Ai margini di quella che era un'ampia aia, a fianco della casa, sorgono ancora tre secolari gelsi dov’era appeso uno specchio, di fronte al quale i soldati di mattino si radevano. I tre alberi fungevano pure da bersaglio al tirassegno addestrativo e, sebbene fossero crivellati dai proiettili, sono tuttora più vegeti che mai. In una stanza del secondo piano erano rinchiusi dei soldati provenienti dalla prima linea del fronte del Piave e del Montello, ragazzi usciti di mente per essersi visti la morte in viso, che davano in escandescenze e invocavano la mamma. Durante la Seconda Guerra Mondiale la casa degli “Smaniòti” fu parzialmente requisita dai tedeschi in ritirata, che si accamparono con le masserizie e gli equini che avevano al seguito. Erano truppe impaurite e allo sbando, oltre che aggredite dai pidocchi. Prima di abbandonare l’abitazione si liberarono dell’armamentario che portavano: bombe a mano, pistole, mitragliatori e proiettili, sotterrando il tutto a fianco della concimaia. Ancor oggi i Favotto sono convinti che quell’arsenale bellico si trovi tuttora dove fu gettato. Il mulino, azionato dall’energia elettrica, era dunque sorto a cavallo delle due guerre, di fronte all’abitazione e ben presto divenne una fonte di reddito importante, considerando che l’economia era esclusivamente agricola e che accorreva gente anche dai paesi vicini. A fianco del fabbricato c’era la stalla dei cavalli; più in là i porcili e le concimaie. La professione di mugnai era integrata da altre lavorazioni per conto terzi. I Favotto furono i primi a possedere un trattore con ruote di ferro e una trebbiatrice a vapore, macchine che servivano ad agevolare il lavoro della propria campagna, ma che erano usate anche per lavori in conto terzi. Nelle stagioni di punta si usciva in campagna dal canto del gallo al tramonto inoltrato. Più tardi, con l’incrementarsi del lavoro, fu comprata una seconda trebbiatrice. I Favotto furono i primi in Porcellengo a possedere la radio, un mezzo di comunicazione rivoluzionario, ma se per i più era una grande scoperta, c’era anche chi l’aveva osteggiata. Guglielmo Marconi era stato addirittura ridicolizzato per la sua invenzione. Gli intellettuali del tempo l’avevano bollata come "utile solo agli imbecilli senza cultura". Fatto è che già nel 1941, gli "Smanioti" possedevano una radio e avevano l'acqua in casa: una condizione da benestanti per quei tempi. Giuseppe, figlio di Giovanni, proprio per questo si vergognava di farsi vedere in paese. C'era una tale ristrettezza che permettersi tanto "lusso", faceva scandalo e destava non poche invidie.

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