Lazzaron (“Pipa”)

lazzaron“7 Novembre 1774. Fortunato del pio ospitale di S. Maria di Treviso allevato e dimorante in questa cura e Pasqua figlia di Giacomo Silvello nata, allevata, e dimorante in Parrocchia, seguite in questa Chiesa le debite pubblicazioni hanno stamattina inter missam solemnia secondo il rito di S. Chiesa Cattolica incontrato matrimonio coll’assistenza di me Costanzo Bozza Arciprete. Testimoni furono Valentin Ferari fu Antonio e Pierantonio D’Alessi fu Alessio, campanari di questa chiesa”. È l’atto di matrimonio rinvenuto nell’archivio parrocchiale di Paese, che attesta l’unione tra Fortunato Lazzaron e Pasqua Silvello, progenitori di una lunga discendenza che va tuttora allargandosi. Fortunato e Pasqua erano contemporanei di Antonio Canova (1757-1822), il maggior artista italiano del neoclassicismo. Era nato a Possagno dove realizzò il famoso tempio che ne custodisce le spoglie. Sembra che fosse stato battezzato nel fonte battesimale della chiesa di Paese, che si trovava allora in quella di Possagno. Il matrimonio dei due coniugi fu coronato dall’arrivo di tre figli: Bartolomeo (1780), che si coniugò il 5 settembre 1811 con Anna Callegari da Castagnole; Domenica (1787), probabilmente morta prematuramente poiché al fratellino che seguì fu imposto lo stesso nome; Domenico (1792), che prenderà in sposa Domenica Balzan. Saranno questi a traghettare la famiglia Lazzaron nel XIX secolo. La vita in casa Lazzaron era per certi versi simile a quella raccontata da Ippolito Nievo in “Le confessioni d’un italiano”, tipico tirare a campare da poveri contadini dell’entroterra veneziano. Dall’unione tra Bortolo Lazzaron e Anna Callegari derivarono sei eredi, ma non tutti camparono a lungo perché è realtà documentaria l’elevata mortalità infantile del tempo. Primogenito era Giovanni Fortunato (1812), che sposò Lorenza Feltrin (1847) il 25 novembre 1847, nella chiesa di Paese. La struttura della famiglia fu completata dai quattro figli che ne derivarono: Bartolomeo (1850), Rosa (1853), Giuseppe (1856), e Domenico (1863). Bartolomeo e la vicina di casa Maria Luisa Gabin (1854) furono marito e moglie il 27 febbraio 1878, matrimonio allietato dall’arrivo di cinque neonati tra il 1881 e il 1899. Per primo era giunto Giuseppe, classe 1881, marito di Rosa Borsato (1899) da Porcellengo; i due si erano uniti nell’arcipretale di Paese il 30 gennaio 1929. Venne poi Luigi Giovanni (1884), padre di Bortolo Giovanni (1919), in arte “Lino Pipa”, campione sportivo. Seguirono Anna Maria (1886) e Giovanna (1888). Per ultimo aveva visto la luce Giovanni Battista Antonio, classe 1899. Luigi era il padre del cavaliere dello sport Bortolo Giovanni (1919), in arte “Lino Pipa”, fondatore del Moto Club “Dino Grespan” di Paese e campione di gimcana motociclistica alle Olimpiadi di Roma del 1960. Un personaggio che si è fatto onore anche nel ciclismo, atletica leggera, pugilato, motociclismo e karterismo. Memorabili in quest’ultima disciplina le gare in circuiti cittadini, compreso in quello di Paese attorno alle scuole elementari della piazza. Innumerevoli le vittorie conseguite. Lino era sposato con Ada Antonia Checchin (1926-2004). Giuseppe aveva contratto matrimonio a quarantott’anni compiuti, ciononostante divenne padre di dieci figli, grazie anche alla sua giovane sposa che aveva una differenza d’età di ben diciott’anni. In precedenza, il fante Giuseppe era stato combattente della Grande Guerra, sul Monte Grappa e lungo le rive dell’Isonzo, protagonista talvolta di scontri all’arma bianca. Vide cadere tanti suoi coscritti prima di essere fatto prigioniero. Fu quindi internato in Austria, subendo ogni sorta di privazioni, tanto da deperire a vista d’occhio; si cibava con quel poco che riusciva a rinvenire tra i rifiuti. Fortuna volle che alla cucina del campo di prigionia fosse in servizio il compaesano Giovanni Vendramin, che preoccupato delle sue condizioni lo chiese come aiutante; fu la sua salvezza. Persa la guerra, gli austriaci lasciarono liberi i prigionieri dicendo loro che, se volevano sopravvivere, si arrangiassero cercando lavoro in campagna. Giuseppe fu accolto in una fattoria ottenendo vitto e alloggio in cambio della sua manodopera. In breve si conquistò la stima della famiglia che l’ospitava perché sapeva rendersi utile in tante situazioni e mestieri, lui che aveva sempre fatto il contadino. Sapeva cambiare un manico, rifare i denti del rastrello, sistemare l’aratro, aggiogare i buoi, seminare, falciare; insomma s’industriava in qualsiasi cosa. Ma la nostalgia della famiglia era una costante e un giorno manifestò il desiderio di tornare in patria. I suoi ospitanti non avrebbero mai voluto che arrivasse qual momento perché gli si erano affezionati. Fatto è che il distacco fu struggente. Giuseppe si allontanò a piedi con il suo misero fagotto in spalla. Mettendo piede sul cortile di casa, incontrò la sorella Anna che vedendo questo lercio barbone fu presa da una certa inquietudine. “Cosa cerca?”, gli chiese. “Son Bepi…”, rispose il fratello; ma lei, dibattuta fra lo stupore e l’incredulità, esitava. “Sì, Anna, son proprio Bepi!”. In Anna si accese improvvisamente un lume; commossa fece il gesto di abbracciarlo, ma lui si schernì dicendole: “No… sono puzzolente e pieno di pidocchi; portami prima un secchio d’acqua che possa lavarmi”.

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